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18 Dicembre 2018 | Open

Open & Openness 1


” Essere aperti” dovrebbe essere non un mantra o una filosofia, ma un approccio ragionato e rigoroso alla strategia e alla leadership, in grado di fruttare risultati concreti. Non stiamo parlando di trasparenza totale e di apertura completa per chiunque, dai clienti ai competitor, ha accesso a tutte le informazioni e ciascuno viene coinvolto in tutte le decisioni. Un tale livello estremo è irrealistico e sarebbe insostenibile in una azienda che voglia mantenere il vantaggio competitivo e la capacità di funzionare a dovere”.

Come inizio libro non c’è male. Accanto al mantra dell’apertura troviamo subito un confine. Domanda: chi lo stabilisce? La faccenda viene risolta con il lasciare andare ed “l’essere veri”.

Il punto vero di criticità è probabilmente quello di partenza, cioè che l’esigenza di apertura parta dai social network, dalla tipologia di relazione che essi impongono. Certo che il “peer to peer” di cui si nutrono i social ha profondamente modificato la traiettoria delle relazioni e, con essa, il tipo di coinvolgimento relazionale tra gli attori delle relazioni. Di certo essa diviene piatta, senza ascendenze o discendenze. Scompare anche il concetto di comunicazione bottom up e top down e, con esso, la dimensione gerarchico-organizzativa della comunicazione…Dunque….dove sarebbe l’eventuale contraddizione?

Se assumiamo per un attimo la prospettiva organizzativa e non partiamo da quella relazionale, si deve necessariamente partire dall’idea di organizzazione aperta che, di per se, non è affatto nuova nelle storia dello Sviluppo Organizzativo. Von Bertalanffy, nel 1950, definisce l’organizzazione come Sistema Aperto. Un sistema che ha relazioni con l’esterno, che ha un equilibrio dinamico interno, che si adatta all’ambiente circostante dal quale riceve input e nel quale rilascia output. In verità, un possibile limite di questo modello è la ricerca spasmodica dell’equilibrio omeostatico, fortemente voluto dai principi fisici della termodinamica di cui, il modello, paga un minimo di sudditanza ma apre però spazi importanti ai sistemi sociali organizzati. Con Emery &Trist ed il TavistocK Institute troviamo poi i primi studi che daranno poi vita ai “sistemi socio-tecnici”, all’analisi dei processi interno-esterno, alle relazioni tra persone e persone, tra persone e tecnologie, alla definizione di strutture e processi organizzativi. Dunque, secondo questo “punto archimedico di osservazione” l’organizzazione è altamente influenzata dal contesto, dalle caratteristiche del territorio in cui opera, sino ad essere fortemente influenzata dalla dimensione GloCale, dalla evoluzione delle tecnologie. La conformazione, la morfologia, il disegno e la rappresentazione organizzativa evolvono nella continua dinamica di interscambio, non necessariamente omeostatico.

Se ci concentriamo per un attimo su COME l’evoluzione sociale “porta dentro” le organizzazioni nuove istanze è possibile intercettare una dinamica diversa da quella indicata da Charlene Li, non legata all’affermazione dei social network ma dal radicale cambiamento del tessuto sociale ed alla sua differenziazione, agli effetti della globalizzazione, alla insorgenza di fenomeni di massa nuovi, alla natura diversa dei processi e della qualità delle relazioni. L’insorgenza della società liquida descritta da Zygmunt Bauman, ha origine dalla crisi delle modernità e della razionalità, dentro un post modernismo in cui la mercificazione della vita e delle persone decide anche l’essere inclusi o esclusi. Con la disgregazione delle comunità e dei valori da essa provenienti, saltano le uniformità valoriali e comportamentali, in luogo di una frammentazione, una polverizzazione di anime infinitesimali che sviluppano morali soggettive, autoreferenziate, lontane dai paradigmi omologanti con una visione di integrazione delle incoerenze. La morale di Bauman è irrazionale e, come tale, descrive una pluralità infinità di identità e relazioni etero valoriali che si possono aggregare e disgregare velocemente intorno ad un problema, una passione, una post verità. Tutto questa genera liquidità sociale, un liquido di relazione umane che vivono in una dimensione sospesa, complessa e senza centri di gravitazione costanti. Un enorme problema di ricerca di identità. Il quadro è delineato è che la convinzione “che il cambiamento è l’unica cosa permanente e che l’incertezza è l’unica certezza”.

 

 

Partendo dunque da questa ultima prospettiva, scopriamo che i social network sono in frutto di una innovazione ed evoluzione tecnologica, del web 2.0, sono in un certo senso espressione del tempo ma, il tempo, e frutto di una evoluzione storico-sociale e l’origine delle necessità di apertura delle aziende al mondo esterno non è cosa sollecitata dai social. Le aziende non devono interessarsi al fenomeno dei social perché devono preservare la loro reputazione o per la possibilità che i social possano intaccare la loro immagine. L’apertura, la necessità di vedere le organizzazioni in una prospettiva aperta non è cosa recente ed i sistemi aperti lo hanno indicato da tempo. L’apertura, la spinta verso una visione openness nasce più dalla necessità del superamento dell’autoreferenzialità, dalla presunzione che al proprio interno ci siano tutte le risorse e le competenze per poter trovare le risposte all’innovazione dei prodotti e servizi. L’azienda o l’organizzazione, aprendosi può andare ad intercettare le micro soggettività, network e che operano su dimensioni spazio-temporali inusuali per esempio di natura globale. Può pescare nella liquidità dove è possibile ci siano valori, competenze e saperi che possono consentire di progettare e co-progettare prodotti e servizi realmente innovativi. È questo genere di apertura che può divenire vantaggio competitivo da una parte e, dall’altra, sviluppo continua di una capacità relazionale generativa che, questa si, pone problemi di sviluppo di capacità relazionali nuove.

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